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Discriminazioni di genere, mobbing e molestie sessuali: quali tutele?

Discriminazioni di genere, mobbing e molestie sessuali: quali tutele?

Per l’Angolo della Giustizia l’Avvocato Ida Grimaldi riflette sulle possibili tutele da discriminazioni di genere, molestie e mobbing sul luogo di lavoro: lo sapevate che l’Italia, per partecipazione economica e per pari opportunità nel mondo economico, si trova al 118° posto?

Contestualizzazione storica

La discriminazione di genere è un problema centrale per le politiche di sviluppo sociale, e non solo sociale, a livello mondiale; i grandi temi del presente non possono, dunque, prescindere dalle prospettive di una rigorosa evoluzione storica. Emily Dickinson scrisse: “Non conosciamo mai la nostra altezza finché non siamo chiamati ad alzarci.” Il metro di valutazione della nostra altezza sono i diritti, ma non è, storicamente, sempre stato così, e ciò è vero soprattutto per i diritti delle donne, diritti quasi sempre acquisiti a fatica, non dati “per natura”, frutto di lotte e di impegno di molte, diverse generazioni, effetto di criteri regionalistici, geografici, etnici.

Il ruolo sociale della donna, infatti, è sempre stato legato alla figura di moglie e madre, in funzione della vita di altri: del marito, dei figli. Sarebbe istruttivo leggere, a questo proposito, qualche pagina dell’“Emilio” di Jean-Jacques Rousseau: “La vera madre di famiglia, anziché essere una dama del gran mondo, non sta meno tappata in casa della monaca nel suo chiostro”, o ancora più illuminante la struggente “Dedica alle donne” dal “Proemio” del Decameron di Boccaccio.

E’ solo nel pieno della Rivoluzione Francese che le donne scendono in piazza  a rivendicare i diritti politici e civili loro negati: chiedono la condivisione del potere e, dunque, anche la rivendicazione dei visibilità di rappresentanza. Olympe de Gouges fu colei che ebbe la capacità ed il coraggio di riscrivere e  pubblicare nel settembre del 1791 la Dichiarazione dei “Diritti dell’uomo e del cittadino” al femminile. Olympe de Gouges sarà poi ghigliottinata nel novembre del 1793 «per aver dimenticato le virtù che convengono al suo sesso» ed «essersi immischiata nelle cose della Repubblica».

È stato molto lungo, dunque, il cammino delle donne. Di fatto solo  nel XX secolo esse sono  riuscite ad affermare la propria identità al di fuori della sfera familiare, “sostenendo i propri diritti legali, politici e lavorativi” (De Vega 1994).

Il riconoscimento pieno dell’eguaglianza di genere, per quanto concerne l’Italia, entra in vigore nel 1948 con la Costituzione: art. 3 comma 1 Uguaglianza formale, art. 31 comma 2 Tutela della maternità, art. 37 comma 1 Tutela del lavoro, art. 48 comma 1 Diritto di voto, art. 51 comma 1 Facoltà di carriera pubblica e politica.

Altre tappe importanti, che riguardano segnatamente l’ambito lavorativo, saranno poi quelle del 1977, quando  viene promulgata la legge 903 sulla parità di trattamento fra uomini e donne in materia di lavoro, garantendo quindi almeno teoricamente, equità di trattamento economico; del 1981 quando l’Italia,  con L. 125 recepisce la raccomandazione europea sulle azioni positive sulla realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro; del 2006 quando, con d.lgs. 198/2006 viene introdotto un Codice delle pari opportunità contro le discriminazioni di genere.

Le barriere sociali

Permangono, tuttavia, non poche barriere sociali per raggiungere piena parità di genere. Lo si desume, ad esempio, dal  World Economic Forum che, tramite il global gender gap, indica, anno dopo anno, a che punto si collocano i Paesi del mondo per quanto riguarda  il divario di diseguaglianza di genere. L’Italia nel 2017 è stata collocata all’82esimo posto, ovvero, per quanto riguarda l’Europa occidentale, dopo la Grecia e prima solo di Malta e Cipro.  Il dato è assolutamente allarmante, ma c’è di peggio: per quanto riguarda la partecipazione economica e le pari opportunità nel mondo economico, e cioè parità di stipendio e parità di lavoro, l’Italia si trova al 118esimo posto, fra Messico e Birmania.

Si può pertanto dire che oggi il processo per la realizzazione delle pari opportunità uomo-donna non sia ancora concluso: il 70% dei ruoli di potere appartiene agli uomini.

Di discriminazione si parla anche all’interno dei ruoli familiari: le donne si fanno carico in casa del peso quasi integrale del lavoro domestico e della cura dei figli: da un portale specializzato nel valutare le giuste retribuzioni, è emerso che, il lavoro domestico, se fosse retribuito costerebbe almeno € 3.000 al mese.  Un altro dato dà la misura della perdurante discriminazione: nel 2016 le richieste di dimissioni sottoscritte dalle donne sono state il 78% rispetto a quelle degli uomini (22%), donne che, secondo l’INPS, hanno motivato le loro dimissioni con l’impossibilità di conciliare lavoro, figli e famiglia. Da qui il significativo calo delle nascite, dovuto in larga misura alle incertezze economiche e alle persistenti asimmetrie di genere, sia nel mercato del lavoro sia nel lavoro domestico. Si rimandano, dunque, o si riducono al minimo le scelte di fecondità: in Italia 6 laureati su 10 sono donne,  ma i tassi di occupazione femminile sono molto più  bassi rispetto a quelli degli uomini e gli stipendi pure. Trovano pertanto una loro beffarda “giustificazione” le parole di Rita Levi Montalcini: “Il capitale umano è equamente distribuito tra i due sessi. Solo alle donne non è concesso di utilizzare il proprio”.

Una delle più brutali conseguenze della diseguaglianza sociale, politica, culturale è la violenza contro le donne. Il 12 aprile 2018 il Consiglio Superiore della Magistratura ha diffuso dati choc: ogni 60 ore una donna viene picchiata o violentata o uccisa. Questo è emerso in un incontro tenuto a Roma tra il CSM e i rappresentanti nazionali dei centri antiviolenza in vista di future iniziative.

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Le molestie sessuali

Altro tema caldo, all’interno delle discriminazioni di genere, è quello delle molestie sessuali, alla ribalta dopo il caso Weinstein. Ironicamente come accade ormai troppo di frequente in questi casi, è spesso la vittima ad essere additata al pubblico discredito. Simili sofferenze, non vengono risparmiate neppure alle vittime di violenza che osano denunciare: interrogatori morbosi da parte della polizia, giudizi “morali” sì da provocare una seconda violenza chiamata «vittimizzazione secondaria», in alcuni Paesi esplicitamente vietata per legge, malcelate incredulità, simpatia o comprensione solo di facciata.

Le denunce pubbliche che hanno sconcertato di recente il mondo dello spettacolo sono un esempio di come il tema delle molestie e dei ricatti a sfondo sessuale nei luoghi di lavoro sia un fatto usuale diffusissimo. Troppo spesso abusi e molestie vengono considerati eventi normali, persino scontati, talché le lavoratrici che li subiscono preferiscono tacere, soprattutto quando il loro è un lavoro precario, la cui durata e le cui condizioni dipendono dalla discrezionalità del datore di lavoro.

I dati Istat ci dicono che 9 donne su 100  nel corso della loro vita lavorativa, sono state oggetto di molestie o di ricatti a sfondo sessuale sul luogo di lavoro (1 milione e 403 mila), ma che solo il 20% ne parla con qualcuno (di solito colleghi di ufficio) e solo lo 0,7% denuncia, vuoi per timore di ritorsioni, vuoi per vergogna, vuoi per un distorto senso di colpa, vuoi per dubbi di calunnie o di maldicenze. Una violenza, quella delle molestie o dei ricatti nei luoghi di lavoro, che colpisce in maniera particolare la lavoratrice precaria che si trova in una posizione di debolezza e di vulnerabilità.

Sicuramente la molestia entra in quella più generale categoria del mobbing, che dall’inglese “to mob”. Nel nostro ordinamento non esiste una legge specifica contro il mobbing, ma una serie di definizioni elaborate da studi e testi di psicologia del lavoro, condivise dalla giurisprudenza e dalla Cassazione. La spiegazione più ricorrente del mobbing è stata catalogata “come un insieme di condotte vessatorie reiterate e durature, individuali o collettive, nei confronti di un lavoratore o lavoratrice ad opera di superiori gerarchici”. In altri casi si tratta di una strategia messa in atto dopo l’estromissione del lavoratore dal posto di lavoro. Si pensi ad esempio alle molestie sessuali. Il fenomeno ha molte sfaccettature, spesso difficili da dimostrare in un contenzioso, anche perché il molestatore spesso ritorce l’accusa a suo vantaggio, affermando che la vittima era stata del tutto consenziente.

I danni non sono solo per il lavoratore ma anche per l’azienda, in termini di minore produttività, di aumento del rischio di infortuni e di conflittualità. Le inevitabili ripercussioni ricadono poi sul servizio sanitario (cure, farmaci) e sul sistema previdenziale (malattie, infortuni, minore gettito contributivo).

L’Osservatorio Mobbing dell’Università La Sapienza di Roma ha stimato un costo medio di 1894 euro l’anno per ogni persona mobbizzata su un numero totale di casi che, compresi i silenti, viene calcolato in oltre 500.000.

Per debellare il fenomeno delle molestie e delle discriminazioni, sono fondamentali l’informazione e la capacità di intervento da parte di chi è preposto alla tutela dei lavoratori. Bisogna anche sostenere, giorno dopo giorno, una battaglia culturale a tutti i livelli per promuovere il rispetto delle persone e delle differenze, siano esse di età, di genere, di orientamento sessuale, di appartenenza religiosa, politica e quant’altro.

La Consigliera di Parità

Una figura relativamente poco conosciuta, ma che potrebbe essere risolutiva nell’ambito dell’uguaglianza dei generi, è quella della Consigliera di Parità: si tratta di un pubblico ufficiale, istituzionalmente, deputato al contrasto delle discriminazioni di genere poste in essere sui luoghi di lavoro. Ha l’obbligo di segnalare all’autorità giudiziaria i reati di cui venga a conoscenza nell’ambito delle materie di sua competenza.

Prevista a livello nazionale, regionale e provinciale, la consigliera deve possedere “requisiti di specifica e comprovata competenza ed esperienza pluriennale in materia di lavoro femminile, di normative sulla parità e pari opportunità nonché di mercato del lavoro”. È nominata con decreto del Ministero del Lavoro, di concerto con il Ministro delle Pari Opportunità, su designazione degli organi a tal fine individuati dalla Regione e dalle Province, i cui compiti e le cui funzioni sono disciplinati dal D.lgs 198/2006, c.d. Codice sulle Pari Opportunità.

La Consigliera intraprende ogni utile iniziativa, nell’ambito delle competenze dello Stato, per far rispettare il principio di non discriminazione e per promuovere pari opportunità per lavoratori e lavoratrici. A tal fine, l’ufficio della Consigliera fornisce informazioni, anche telefoniche, sui diritti e sulle tutele delle lavoratrici o dei lavoratori. Offre una consulenza gratuita in merito all’accertamento della situazione e discriminazione sul lavoro. Su richiesta del lavoratore o della lavoratrice, interviene con un’azione di mediazione volta a favorire una conciliazione con l’azienda. Ha altresì funzioni relative al contenzioso in sede conciliativa e giudiziale, con facoltà di promuovere e sostenere azioni in giudizio nei casi di discriminazioni basate sul sesso. Intervenire anche nei giudizi per cause di discriminazione, predisponendo e concordando piani antidiscriminatori nelle procedure conciliative.

Conclusioni

Il ‘900 è stato certamente il “secolo sparti-acque” per quanto attiene l’eliminazione della vergognosa discriminazione di genere. Molto, moltissimo, in questa sotto-cultura, è radicalmente cambiato dacché “le donne erano ristrette dà voleri, dà  piaceri, dà comandamenti dé  padri, dé fratelli e dé mariti e molta “malinconia o gravezza di pensieri” (G. Boccaccio, “Decameron”: Proemio), tutta coniugata al femminile, si è stemperata nel corso dell’ultimo cinquantennio grazie all’abbattimento dei pregiudizi culturale e psicologici e a leggi coraggiose ed innovative.

Tuttavia, la quasi quotidiana cronaca di abusi perpetrati soprattutto sulle donne in pressoché ogni ambito, nonostante le conquiste in materia di diritti e Diritto, sembra ancor oggi  smentire conquiste, cambiamenti, rinnovamenti.

Cultura e consapevolezza, autostima e competenza, in primis da parte proprio delle donne sono le armi migliori per acquisire una reale parità di genere e per porre fine ad un’uguaglianza troppo spesso solo di facciata, e troppo spesso offesa, quando non vanificata, da mobbing e da molestie sessuali.

 

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